DELLA NATURA DELLA CULTURA
A cura di: Presentata da Enrica Petrarulo
Ma questo ricercare la natura nella cultura, e la cultura nella natura, l’identità nella differenza, il contingente nel permanente, è precisamente l’esperienza dell’arte. Gabriella Di Trani, Silvana Leonardi, Rita Mele, Franco Nuti, Teresa Pollidori sono gli artisti invitati a dare conto di questa apparente intransitività.
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L’evento è il terzo appuntamento di Dialoghi 2016, ciclo di quattro mostre in cui i 20 artisti dall’Associazione culturale Fuori Centro si sono divisi in gruppi di affinità per documentare i Differenti gradi di percezione nei percorsi e negli obiettivi della propria ricerca nell’ambito della sperimentazione contemporanea.
Il pensiero contemporaneo è attraversato da una dicotomia ancora irrisolta: quella che intercorre tra la nozione di natura e quella di cultura, e quindi tra universalismo e relativismo. Una sorta di ambiguità lega, comunque, i due termini, non sapendo con esattezza dove si collochino i confini dell’uno e dell’altro. Dov’è la natura dell’uomo? Per dirsi uomo, l’uomo ha bisogno di un linguaggio, cioè appunto della cultura (R. Barthes).
Non si tratta, allora, di risolvere un’antinomia, bensì di annunciare l’oltre di questa intransitività, sciogliere la sua circolare interdipendenza: ma questo ricercare la natura nella cultura e viceversa, il contingente nel permanente, l’identità nella differenza, è precisamente l’esperienza dell’arte.
Gli artisti invitati a misurarsi su questo tema, devono certo avere colto il paradosso che lega i due termini. Deve averlo colto Gabriella Di Trani che, attraverso la composizione di più piani di rappresentazioni, costruisce la sua personale gabbia culturale. Nel suo lavoro non c’è neppure una traccia che possa minimamente riportarci a un residuale stato di natura: qui il contagio è già avvenuto. Virus, questo il titolo del dittico che costituisce la sua installazione, allude alla condizione ossessiva e coatta di una psicopatologia che tutti ci possiede, e ci inibisce finanche la parola. L’installazione di Silvana Leonardi, Sipario, sembra, a prima vista, introdurci all’interno della rappresentazione teatrale di una confortevole commedia borghese. Una sedia, autentico ready made, è posta accanto al dipinto di una terrazza che affaccia su uno scorcio di Mediterraneo dei giorni nostri. Sulla sedia è un libro abbandonato che non ci sarà difficile riconoscere come un’edizione di Al faro di Virgina Wolf. Su tutto incombe un’assenza, quella di chi abbia abitato la sedia, letto quel libro. Per quanto diverse siano le configurazioni geografiche, pure siamo tentati da un’ipotesi di similitudine, quasi un’identificazione proiettiva: attraverso lo slittamento dell’unità spazio-temporale tra l’azione che qui si compie e quella della vicenda narrata dalla scrittrice inglese, ci giunge tuttavia la medesima percezione di una natura vista e ri-conosciuta attraverso un filtro letterario, se non mitologico. L’Africa è la regione mitica, e anche suo luogo di origine, di Rita Mele. Sulla verticalità di una tela che si dispiega ben oltre i confini della parete, l’artista ha rappresentato, come in forza di un pensiero magico, la trasmigrazione della potenza della cultura, e dunque della sua prassi, verso quel paese degradato. Senza soluzione di continuità, un diapason si fa anello di congiunzione, cinghia di trasmissione, tra un volto appena accennato e la cartografia della regione che, in forma di foglia, invaderà progressivamente l’intero spazio pittorico. Lo spettro delle riflessioni, al quale il dipinto ci rimanda, può essere qui solo accennato: valga per tutti quello delle differenze culturali sacrificate all’egemonia della cultura dominante. Franco Nuti si muove su un piano di necessità: quello di chi intende il dovere di custodire, contro la potenza corruttrice e distruttiva del tempo, la memoria di ciò che l’umanità è stata, e dunque della sua storia, individuale e collettiva, radicandola all’humus della terra (da cui umanità). Orme della memoria, questo è il titolo della sua installazione, si compone di 15 metri di tela di juta (sulla quale l’artista ha scritto un suo testo personale e intimo) riavvolti su loro stessi e custoditi in un cilindro di plexiglass che, a sua volta, poggia su un terreno di sabbia; proprio come la metafora sul ricordo di Aristotele: l’impronta senza materia impressa da un sigillo che, su una tavoletta di cera, conserva la sua traccia. In Perdurare nonostante, di Teresa Pollidori, la contrapposizione natura-cultura si fa più icastica. La foto di un invadente e dominante albero di ulivo, stampata su un telo di plastica, è posta, pur nella sua trasparenza, al di qua dello skyline di un agglomerato urbano costruito attraverso l’assemblaggio di moduli in cartone che adombrano altrettante architetture, quasi a formare, però, un monolite, tale da non consentire neppure un attraversamento. Qui la natura è rappresentata attraverso la chiarezza e il realismo della fotografia; l’urbanità che, come un sudario la contiene, attraverso l’approssimazione di elementari e interscambiabili geometrie, inadatte a suggerire una qualsivoglia idea di mondo.