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30/04/2002 al 17/05/2002 ANTONIO GABRIELE: Terrafuoco
A cura di: Loredana Rea
Antonio Gabriele mostrando insospettate capacità affabulatorie gioca con intelligenza sull'ambiguità del rapporto tra antico e contemporaneo, tra equilibrio e instabilità, tra forma chiusa e spazio aperto, tra levità e staticità, tra monumentalità e fragilità per creare dei segni scultorei di un aspro nitore, di una ricercata arcaicità, di un'inquietante armonia. Sono segni raffinatamente primitivi realizzati in terracotta, secondo le remote regole del raku, a tradire una provvisorietà sublime, in cui l'argilla plasmata con il fuoco si trasforma in buccia coriacea, sorprendentemente illuminata da quelle tonalità madreperlacee che sfumano lentamente nei bruni e negli azzurri metallici, fino ad arrivare al nero, opaco e al tempo stesso traslucido. Una buccia turgida, gravida di un'organicità ctonia, generata dall'alchemica unione tra la terra e il fuoco ed emblematicamente segnata dall'usura dell'acqua, dalle percussioni del vento, dal passaggio del tempo e dal tocco dell'uomo, che ne ha inciso la superficie rugosa con le sue labili tracce. Coniugando le esigenze di un antico sapere con la necessità di una profonda riflessione su di sé, alla ricerca della propria identità in una società che va continuamente trasformandosi, sotto l'azione di una medializzazione invasiva e selvaggia, Gabriele ha creato, in occasione di questa mostra, una serie di stele, sottili menhir di terracotta, apparentemente scarni, eppure fortemente significanti, perché carichi di valenze simboliche e apotropaiche. Sono sculture queste che vivono totalmente in quel tempo prossimo e contemporaneamente remoto che è la dimensione del mito. Quella dimensione in cui l'inconscio collettivo con il suo incontenibile flusso di ricordi oscuri e apparizioni enigmatiche ritrova e rinnova vitalità e potenza. E del mito conservano intatto l'inconfondibile accento ieratico e solenne e, soprattutto, quella particolare fascinazione che nasce dall'unione tra la vocazione narrativa e la capacità evocativa. Sono tracce disseminate a circoscrivere un temenos, un recinto sacro, in cui l'arte si pone come misura aurea degli eventi nell'inarrestabile accadere della complessa molteplicità quotidiana, per circoscriverla e impedirle di dilagare, ma, soprattutto, per lacerarne l'orizzontalità e andare oltre. Sono tracce sparse a delimitare un luogo, dello spirito più che della geografia, in cui l'uomo ha la possibilità di recuperare la capacità di superare con uno scarto improvviso la pratica inerte della realtà di ogni giorno, per accedere a una realtà altra. Con queste nuove opere, misurate e austere, rigorose e severe nella loro arcaica monumentalità, Gabriele recupera alla scultura la sua primigenia funzione rituale, a cancellare il confine tra il sacro e l'umano. E il rituale è il momento della sospensione e del silenzio. È il momento in cui l'uomo ha l'opportunità di riportare ogni frammento dentro l'unità di una forma ordinatrice, per conoscere il segreto della primitiva fusione tra l'individuo e il cosmo. Ma, soprattutto, è il momento dell'epifania, quando per l'uomo è possibile accettare l'inesplicabile eterno fluire dell'esistenza. Solo allora, nel sacro recinto, mentre il fuoco trasmuta alchemicamente la terra in pelle rigida eppure fragile a custodire i segreti oscuri dell'inarrestabile alternanza vita-morte-vita, le primigenie pratiche sapienziali trovano nella ritualità dell'arte la loro essoterica traduzione.
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