Giancarla Frare - Stati di permanenza
A cura di: A cura di Loredana Rea
dall’8 al 25 giugno 2010
A guidare Giancarla Frare nella complessa costruzione di questa sua nuova personale è l’urgenza di dare forma ad un’ossessione di questo nostro tempo: la sottile persistenza del passato, che troppo spesso lascia solo tracce leggere di ciò che è stato e ora non è più. L’artista combatte la fragilità dell’esistenza attraverso un singolare lavoro di messa in memoria, un desiderio di archiviazione, che sa bene essere selettivo: qualcosa inevitabilmente sfuggirà, trasformandosi in altro.
STATI DI PERMANENZA
Testo di Loredana Rea
…tout se passe comme si, dans cet ensable d’images que j’appelle l’univers, rien ne se pouvait produire de réellement nouveau que par l’intermediaire de certaines images particulières, dont le type m’est fourni par mon corps…
Henri Bergson, Matière et mémoire
La relazione dialettica tra posizioni di pensiero e sperimentazione artistica rappresenta nel percorso di ricerca di Giancarla Frare la condizione primaria per la strutturazione di un linguaggio essenziale, raffinato ed assertivo, capace di lasciare presagire quella lenta sedimentazione di stimoli e suggestioni di natura differente, che hanno attraversato, e attraversano, i molteplici territori dei suoi interessi, influenzandone in maniera determinante lo sviluppo.
La pittura, l’incisione, la fotografia, la poesia, la letteratura e da ultimo il video rappresentano, infatti, non gli stadi di una crescita, quanto piuttosto l’articolazione di una sensibilità sfaccettata, tanto che abbracciando con lo sguardo tutto il corpus dei suoi lavori ognuno appare legato all’altro da una coerenza lucida, come se mai fossero sopraggiunte deviazioni, come se nulla avesse potuto comprometterne l’organico consolidamento e, soprattutto, la consapevolezza di sé.
Eppure affondando nell’incommensurabile profondità dei neri, abbandonandosi ai fremiti dei grigi, lasciandosi pervadere dall’insostenibile levità dei cilestrini, che preannunciano l’inaspettata apparizione degli azzurri, si comprende immediatamente il travaglio che accompagna l’artista nell’elaborazione di un’idea, nell’incubazione di un segno, nella materializzazione di un’immagine, nella stesura di una campitura di colore, portando in superficie l’estrema complessità che si nasconde dietro la sua scabra, severa eppure intensa pittura, che è lo strumento privilegiato per trasformare la sostanza della vita in materia per l’arte.
A guidarla sembra essere l’urgenza di dare forma ad un’ossessione di questo nostro tempo: la perdita della memoria, la labile persistenza del passato, che troppo spesso lascia solo tracce sottili di ciò che è stato e ora non è più. È necessario perciò conservare tutto quanto corre il rischio di perdersi in un eterno presente.
Frare combatte la fragilità dell’esistenza attraverso un parossistico lavoro di “messa in memoria”, una singolare volontà di archiviazione, che sa bene essere involontariamente selettiva: qualcosa inevitabilmente sfuggirà, trasformandosi in altro.
La riflessione sul divenire delle cose, sul loro inarrestabile disparire l’ha spinta a creare una scrittura della memoria, intessuta di frammenti di un’assolutezza straniante e contemporaneamente di una rigorosa fascinazione, in cui l’organico si rispecchia nell’inorganico, per trovare in esso le ragioni del proprio essere. Sono reperti iconici, fossili della memoria recuperati tra le pieghe del tempo, impronte indelebili di un’esistenza pietrificata.
Nascono così i suoi nuovi lavori, che segnano il raggiungimento di un equilibrio tra la necessità di una sagace analisi intellettuale e l’emozione del fare. A dominare è la presenza e la valenza della pietra, lacerto di un tempo passato strappato al tessuto archeologico con un prelievo fotografico e innestato in una realtà altra, sovratemporale, in uno spazio immobile, costruito da pochi segni essenziali e allusivi, che non offrono alcuna possibilità di ulteriore definizione.
Il rimando tra immagine fotografata e segno pittorico è continuo, serrato, così come incalzante è il rapporto tra la presenza inquietante della flagranza della realtà – sia pure irrimediabilmente trascorsa – e il ridotto cromatismo degli inchiostri e delle terre naturali. Paradossalmente rafforzano ognuno la presenza dell’altro, contribuendo in uguale misura a costruire i confini di uno spazio claustrofobico, ma in qualche maniera rassicurante in quella sua sommaria familiarità da scarno ambiente domestico, privato di ogni connotazione.
Questa ideale sequenza di stanze della memoria, in cui la persistenza della pietra è a stento contenuta dai limiti dell’architettura minimale, si riflette nel ritmo calibrato delle immagini di un video denso e asciutto, come la pittura da cui inevitabilmente deriva. Una donna ormai centenaria, che sembra fatta di pietra lei stessa, ripete a distanza di anni i versi di Dante ed Ariosto, mandati a memoria in gioventù, come se fossero parole di un mantra capace di preservarla in uno stato di permanenza. Gina è misura concreta e tangibile dello scorrere del tempo, della sua presenza e della sua evanescenza. In alcuni momenti sembra poterlo dominare, facendo riemergere in maniera ossessiva i frammenti di una memoria che non può essere cancellata, ma in altri sembra soccombere sotto il peso dei suoi anni, quasi sul punto di essere fagocitata dall’eternità.
La presenza di questa donna, emblema di un’esistenza arcaica, si confronta con la presenza della pietra, come se solo quest’ultima fosse capace di impedirne il lento, inevitabile risucchiamento nell’oblio di un tempo senza tempo, offrendole la possibilità di continuare a mantenere viva una traccia di sé.
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