STEFANO GIOVANNONE: I mobili vanno via
A cura di: Loredana Rea
Fin dalle sue prime e in fondo recenti esperienze di ricerca, incentrate con caparbia determinazione sull’analisi delle possibilità espressive della figurazione, sia pure svuotata di ogni volontà rappresentativa, Stefano Giovannone ha inteso la pittura come attitudine a sentire e vedere la realtà, a stare dentro le contraddizioni dell’esistenza, per provare a dare un significato a ciò che in apparenza non ne ha. Dal punto di vista formale l’intenzione fin dall’inizio è stata di creare un linguaggio capace di tenere conto della rivoluzione che i media hanno operato e continuano ad operare, pur relazionandosi produttivamente con la tradizione del fare pittura. Nascono così immagini sintetiche, eppure raffinate nella loro evocativa stilizzazione, costruite con colori primari, stesi in campiture piatte, a creare spiazzanti commistioni, raffinate decontestualizzazioni e seducenti alterazioni dell’immaginario collettivo.
Da queste premesse l’artista ha sviluppato la necessità di sempre nuove sperimentazioni, strettamente connesse alle opportunità di rapportarsi dialetticamente con la realtà dello spazio circostante, inteso come concentrazione di esperienze al contempo fisiologiche e psicologiche, da cui è maturato un progressivo distacco dalla pittura tout-cour.
Questo distacco ha coinciso con la necessità interiore di metabolizzare attraverso l’arte gli accadimenti di una quotidianità sempre più spesso piena di disagi, di incongruenze, di incomprensioni, per trasformarli attraverso il lento e progressivo sviluppo di una pratica operativa che tende a decantare la problematicità esistenziale in un linguaggio ricercatamente elementare, sebbene fatto di continue calibrature e faticosi equilibri formali.
L’opera diviene una sorta di specchio trasfigurante degli eventi autobiografici, luogo metaforico in cui si compie il difficile processo della rivelazione di sé, al punto che l’azione creativa è sempre un atto di introspezione profonda, possibilità di conoscersi più a fondo e in maniera più intima, ma soprattutto occasione di oltrepassare i circoscritti confini di sé, per vedere oltre e comprendere le ragioni della propria esistenza al di là della complessa articolazione del quotidiano.
Per questa esposizione Giovannone ha elaborato un’installazione organica nella realizzazione progettuale, che se da una parte segna un ulteriore allontanamento della pittura, nel desiderio di confrontarsi fattivamente con le profondità dello spazio, dall’altro rappresenta un più maturo sviluppo della necessità di elaborare criticamente gli elementi autobiografici in un linguaggio evocativo eppure minimale, pervaso da una poesia sottile che ne accompagna inscindibilmente lo svolgimento: ogni cosa è sapientemente ricondotta alla sua dimensione interiore, in cui la memoria è la misura delle impressioni, delle sensazioni, delle emozioni che in maniera differente hanno segnano la sua esperienza di vita.
I mobili in oggetto, costruiti da vecchi armadi, cassettoni, tavoli e comodini, su cui l’artista è intervenuto con intarsi cromatici di grande impatto visivo, rappresentano emblematicamente la mobilia di famiglia, quella che ha accompagnato la quotidianità della sua vita, che è stata testimone silenziosa di accadimenti felici e di momenti difficili, che ha custodito oggetti di uso comune e, soprattutto, i ricordi strappati all’inesorabile scorrere del tempo. Sono dunque l’elemento biografico, il legame con il passato, sono il luogo simbolico della conservazione e della rivivificazione della memoria per comprendere gli accadimenti di una quotidianità che talvolta appare straniante e straniata.
I mobili di famiglia, che seguendo negli anni le vicissitudini dei loro proprietari, erano stati portati via per finire accatastati in un container ad accumulare polvere, continuano a proteggere i segreti affidatigli, continuano a custodire gelosamente la memoria di gioiosi pranzi di famiglia, di pianti di bambini, di concitate discussioni, di canzoni ascoltate ad alto volume, di carezze e abbracci, di passi ritmati a scandire il tempo di un quotidiano intessuto di momenti banali e di accadimenti straordinari. Attraverso l’arte essi tornano a nuova vita: gli scricchiolii, gli stridii, i cigolii, gli sbattimenti improvvisi delle ante e gli scorrimenti graffianti dei cassetti, tutti i rumori che hanno animato la loro funzionalità, scomposti, ricomposti ed elaborati a diventare musica, raccontano la loro storia, che è poi la storia di Stefano e dei suoi genitori.
Il punto di partenza è il desiderio che l’arte rifletta la complessità della vita, costantemente in bilico tra l’essere e il dover essere. Il fine non è la volontà di restituire il passato come tale, ma la necessità di renderlo ancora praticabile, dando una nuova possibilità a ciò che è stato, per superare l’inquietante precarietà che pervade la quotidiana esistenza e tessere una nuova trama del presente.
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