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09/04/2002 al 26/04/2002 VINCENZO LUDOVICI: Finis Terrae
A cura di: Testo di Loredana Rea
Da oltre un decennio la ricerca di Vincenzo Ludovici si è indirizzata verso l'indagine dello spazio, inteso dapprima come luogo metaforico dell'esistenza interiore e quindi come teatro dell'epifania della natura, in cui sentire e vivere l'emozione dell'inarrestabile pulsare della materia, del ciclico rinnovarsi della vita. In questo ultimo anno, poi, il luogo in sé si è trasformato in luogo assoluto, cosicché l'arte non rappresenta solo la possibilità di indagare lo spazio fin nei suoi più oscuri recessi, per rendere visibile l'invisibile o, piuttosto, l'opportunità di discendere verso la radice delle cose, per conquistare la coscienza di sé, ma è anche, e soprattutto, lo strumento per misurare l'infinita estensione dello spazio, perché esso esiste soltanto se l'artista riesce a indicarne i confini, anche se per forzarli. Il linguaggio di Ludovici, allora, superata ogni tentazione connotativa, sia pure simbolicamente connotativa, ha subito una forte accelerazione verso la semplificazione: l'ordito dei segni è andato via via chiarendosi in una sottesa geometria e le vibrazioni cromatiche si sono ricomposte in forme essenziali, anche se profondamente evocative. È da questa nuova declinazione dell'originaria ricerca che nasce l'installazione Finis terrae, in cui l'artista, continuando a sperimentare le capacità espressive della terracotta invetriata, utilizzata qui per creare le tessere volutamente irregolari di un mosaico, costruisce profondità spaziali lungo le quali inoltrarsi. La tradizionale superficie del quadro, intesa come il luogo della proiezione verso l'esterno, è superata: la pittura (perché di pittura si tratta, anche se Ludovici utilizza materiali diversi) si apre verso lo spazio reale inglobandolo, la luce vibra sul muro, che non è claustrale confine, invalicabile chiusura, ma elemento di raccordo e di congiunzione e le forme dialogano pariteticamente con il vuoto, dissolvendo il limite tra il finito e l'infinito. Il colore si materializza in forme geometriche elementari, mentre i frammenti di ceramica si ricompongono in minimali ellissi, a tracciare le coordinate dello spazio. Ma lo spazio non è più solo quello fisicamente limitato dell'opera, attraverso la calibratissima costruzione dell'artista diviene emblematicamente infinito: i piani si annullano l'uno nell'altro e le profondità diventano incommensurabili, al punto che l'ordinaria misura dell'estensione è scardinata. L'abisso si spalanca davanti al nostro sguardo, che è sempre alla ricerca di indizi e di strumenti per intrappolare il reale, comprenderne il senso e superare l'inquietante precarietà che lo pervade. Lo sguardo, perciò, è libero di vagare per braccare i confini in cui la terra e il cielo si lambiscono, per oltrepassare l'orizzonte immaginario oltre cui l'occhio sprofonda nelle desertiche distese del nulla, per arrivare là dove la chiarezza del vedere sfuma nell'indistinzione. È libero di superare i confini del mondo reale per avventurarsi al di là di esso, in un viaggio la cui meta finale è la realtà dell'altrove. E, ancora una volta, la pittura di Ludovici finisce con esprimere la dicotomia tra la presenza e l'assenza, tra il fenomeno e il noumeno, tra il qui e l'oltre.
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