TERESA MANCINI: FotoGraficaMente
A cura di: Loredana Rea
Nella ricerca artistica contemporanea, orientata da una parte verso nuove sperimentazioni linguistiche e metodologiche dall'altra verso una riflessione sugli strumenti e le motivazioni del fare arte, la fotografia ha finito con assumere il valore di un'arma a doppio taglio: se la messa a fuoco permette, infatti, di insinuarsi insidiosamente nella realtà, è vero anche che essa tende sempre più spesso a decontestualizzarla, per schivare il pericolo della pura registrazione e accentuare il divario tra l'immagine e il dato da cui essa deriva. L'intento è evitare di porsi frontalmente rispetto al mondo, esaltando così la possibilità di un'ambiguità strenuamente ricercata, capace di riflettere la realtà, sia pure modificata di segno, ma anche di assolutizzarla in un articolato processo di astrazione.
Il percorso seguito da Teresa Mancini si pone sulla scia di questa proposizione critica e operativa, oscillando in maniera equilibrata tra la capacità di entrare nel reale e la possibilità di andare oltre esso, per trasformare attraverso la macchina fotografica la natura stessa di ciò che si è impresso sulla pellicola. L'occhio fatica a ricostruire il contesto nella frammentarietà spaesante della realtà fotografata: immagini di frammenti soprattutto, ma anche inevitabilmente frammenti di immagini, e la mente può innescare un processo di conseguente straniamento. Ma il punto di partenza è la necessità di attivare un'operazione di progressiva significazione per costruire un codice linguistico, niente affatto univoco e convenzionale, inteso non come mezzo per arrivare alla sparizione del mondo fenomenico, alla dimenticanza della sua consistenza, dei suoi contorni, dei suoi riflessi, quanto piuttosto come strumento privilegiato per rapportarsi alla sua complessità.
I suoi lavori si sviluppano così intorno al concetto di scrittura di luce, collegandosi strettamente alle sperimentazioni fotografiche delle avanguardie e coniugandole poi con le esperienze della grafica d'autore, nell'intenzione di riflettere sulle possibilità di costruire un'immagine astratta della realtà, in cui ritrovare però l'essenza di questo nostro tempo.
Mancini allude a Man Ray, a Schad, a Moholy-Nagy e a tutta una serie operazioni con la luce, spesso realizzate off-camera, che affondano le proprie motivazioni nelle esperienze artistiche maturate tra la prima metà degli anni '10 e gli anni '30 del XX secolo, mostrando sempre una grande attenzione per l'impaginazione compositiva, giocata sul filo sottile di precisi procedimenti geometrici di organizzazione dello spazio e sulla costante calibratura delle qualità cromatiche.
Pur partendo dalla realtà, le immagini sono totalmente svincolate da ogni meccanismo mimetico, perché la fotografa cerca sempre di eliminare ogni elemento che potrebbe disturbare il loro intrinseco rigore, impedendogli di sfruttare a pieno la forza dei segni, delle linee, dei colori e delle loro reciproche interazioni. Sono immagini costruite su calcolati rapporti cromatici e luminosi, sulla studiata intersezione di tracciati e traiettorie di movimenti che distolgono l'attenzione dalla necessità di identificare il contesto, ma che di contro alludono all'esistenza di forme che progressivamente si dissolvono per dare vita ad una messa in codice assolutamente originale.
Teresa Mancini, infatti, ha puntato l'obiettivo della macchina sulla città, sulle sue strade brulicanti di vita, di movimenti convulsi per costruire immagini senza narrazione, con il programmatico proposito di ridurre la realtà da cui parte alla condizione di segno significativo. Le fotografie si presentano allora come raffinatissimi esercizi linguistici in cui l'inquadratura, che delimita la visione, privilegia il dettaglio decontestualizzato, fino a lasciare fuori dell'obiettivo l'immagine stessa che lo comprende. Il taglio effettuato costringe quindi la realtà in un'algida assolutezza, in una ricercata astrazione che la rendono totalmente irriconoscibile.
Nascono così le immagini presentate in occasione della personale a Studio Arte Fuori Centro, disorientanti eppure indissolubilmente legate alla realtà multiforme di esperienze vissute tra le maglie anonime di un tessuto urbano, attanagliato dal traffico e trasfigurato dalle continue sovraesposizioni luminose. Le luci psichedeliche e il movimento senza sosta si trasformano in traiettorie incandescenti, in misteriose scritture iridescenti, che delle cose mantengono una traccia difficilmente riconoscibile, a evocare immagini enigmatiche nella loro artificialità, eppure strettamente intersecate alla quotidianità e ai suoi accadimenti, e ordire una texture di natura squisitamente pittorica, in cui i rapporti di luce e colore, linee e spazio costruiscono altre forme, nuove relazioni e rapporti sempre diversi.
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