Marco Pili “Paesaggi del silenzio”
A cura di: Michelangelo Giovinale
dal 10 al 31 gennaio 2020 - Le opere di Marco Pili sono un continuo dialogo che si consuma nel silenzio. Interroga le radici che, a lui parlano di paesaggi secolari, di spiagge bianchissime di granelli si sabbia di quarzo piccoli come chicchi di riso.Parlano dell’uomo e della sua storia. Il significato figurativo di radice che è proprio nell’opera di Pili è quello di origine, di una linfa vitale che risale nelle opere è che lo nutre.
Saper guardare, consente di addentrasi in un luogo, cogliere la forma più recondita e distinguerne i particolari nella loro più complessa totalità. Consente all’uomo di svelare la sua sostanza, - come per il latino videre - che significa conoscere se stessi nel sentiero della scoperta, all’interno di ogni forma e dietro ogni figura, comprendere la muta eloquenza di ciò che conserva la propria terra e la sua più recondita identità.
E per sentirsi parte di un luogo, bisogna saper riconoscere le parti di un tutto, come in quell’unità del paesaggio che fu per Platone il suo cosmo luminoso, quell’antico mondo mediterraneo di unità e di pluralità, di storiche civiltà, di mercanti, corsari e avventurieri, di uomini che lo hanno navigato con inconfondibile identità.
Marco Pili ha un occhio sagace. Ricerca con pazienza la trama sottile della sua pittura che ha in se, frammenti di paesaggi perduti di terra sarda. Hanno il sapore delle stagioni di mezzo, quando l’odore di terra bruciata sale alle narici dopo le piogge d’agosto, mentre i venti di maestrale soffiamo in Sardegna fra i resti di antichi nuraghi e i fitti canneti della penisola del Sinis, dove l’orizzonte accecato di luce si restringe in quell’abbraccio fatale - se non mortale - fra cielo, mare e terra.
Le opere di Marco Pili sono un continuo dialogo che si consuma nel silenzio. Interroga le radici che, a lui parlano di paesaggi secolari, di spiagge bianchissime di granelli si sabbia di quarzo piccoli come chicchi di riso. Parlano dell’uomo e della sua storia.
Il significato figurativo di radice che è proprio nell’opera di Pili è quello di origine, di una linfa vitale che risale nelle opere è che lo nutre.
Un bisogno di attingere dal ventre della madre terra che, Marco letteralmente setaccia, prima di trasformarla in materia per la sua pittura che si addensa nelle forme grasse e ruvide delle sue geometrie.
Il suo è un processo di indagine antropologia, che nelle numerose sperimentazione lo ha portato a recuperare anche l’antico pane carasau, o ancora frammenti di pizzi e merletti, che lascia affiorare nelle opere come trame di memoria, mescolati a pigmenti di colori primari che esplodono con una veemenza che sembra quella tellurica di un terremoto.
Marco Pili è un artista puro. Non adopera intermediazioni. Le mani sono l’unico strumento di indagine. Non fa ricorso ad arnesi del mestiere che sono propri del fare di un pittore. Sono solo le mani, dopo aver raccolto a ricomporre per strati le geometrie informali delle sue opere che a fatica trattengono eruzione di colore, accidentale e incontrollato.
È un viscerale Pili. Imprime nella sua pittura la stessa forza che estrae dalla terra. Le tele nel suo studio sono sempre in posizione orizzontale. Più che un procedimento tecnico è la sua necessità di calarsi nello spazio fisico dell’opera, chino, come un corpo a corpo impetuoso dal risultato quasi sempre imprevedibile.
Il suo è un sentirsi parte di una polis, l’abitare i luoghi come tratto distintivo del paesaggio, come segno identitario, altro da una mera occupazione. Non solo un avervi dimora, piuttosto un abitare il mondo, che oggi, in quello contemporaneo è immagine di un’unità perduta.
C’è inoltre, nel suo lungo cammino, tutto il senso dell’ereditare, non come mero atto del prendere, piuttosto come gesto concreto e attuale del rendere paesaggi millenari, che al suo sguardo si ricompongono, nella
relazione complicata con il futuro, sempre più stridente. Come se la trama naturale di un tempo oggi sia, irrimediabilmente diventata incerta e dubbiosa.
Un elemento, più di altri, restituisce la misura di quanto la sua opera è l’espressione compiuta del suo essere parte di quel luogo e del suo viverci.
Basta curiosare nel retro delle sue tele. Su corposi telai di legno, prima ancora di calarsi nella creazione dell’opera, Marco tende antichi tessuti usurati dal tempo.
Sono reperti raccolti nel suo lento peregrinare. Spesso sono lenzuola, che sistema come su di un letto preparato ad accogliere amanti.