Maurizio Cesarini. Doppelgänger
A cura di: Loredana Rea
DOPPELGÄNGER
L’io e l’altro (l’autentico, il doppio, il riflesso)
Alla fine di questa giornata rimane ciò che è
rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani;
l’ansia insaziabile e molteplice dell’essere
sempre la stessa persona e un’altra
Fernando Pessoa
“Chi sono io?” è l’interrogativo che Maurizio Cesarini pone a se stesso con parossistica determinazione, a legare indissolubilmente le esperienze maturate negli anni ’70 e declinate fino a oggi con profonda sensibilità e rara intelligenza. Dalle prime performance ai video più recenti, infatti, è possibile leggere in trasparenza la costante riflessione sulla necessità di darsi un’identità attraverso l’arte, amplificando la problematicità di una ricerca che non può dare risposte certe, ma solo occasioni per oltrepassare gli asfittici confini di sé, superando prospettive ambigue e apparenze effimere.
L’indagine sull’identità è il centro di un’azione creativa, intesa come possibilità di conoscersi grazie a un complesso processo di analisi introspettiva, in cui i segni dell’operatività e del pensiero si contaminano gli uni con gli altri, per catturare l’autentico sé (o forse l’altro in agguato nel sé) e liberarlo dalla prigione del corpo, metafora di una condizione di visibilità e al tempo stesso di invisibilità, cercando di definire l’ineludibile precarietà della propria condizione, nell’impossibilità di conciliare la difficoltà di essere e la necessità di apparire. La precisazione identitaria avviene su un doppio binario: per via assertiva, con l’esibizione del proprio corpo in quando corpo d’arte e per via negativa, con l’attuazione di una continua destrutturazione della soggettività monolitica, per affermare l’estraneità nei confronti di se stesso, in una sorta di ricercato strabismo, in cui inevitabilmente essere e apparire non coincidono, tanto che il primo è spesso sopraffatto dal secondo.
Conseguentemente l’artista crea una serie infinita di possibili identificazioni a riempire il vuoto tra il corpo e la sua immagine e creare un cortocircuito, sviluppato sul filo sottile dell’ambiguità, dell’ironia, della dissacrazione, con un meccanismo seduttivo di grande efficacia, in cui l’io e il suo doppio si riconoscono nel riflesso dell’uno nell’altro. L’opera allora si pone specchio sulla cui superficie giunge a compimento la rivelazione di sé e al tempo stesso un suo ulteriore nascondimento, perché a guidarlo è il desiderio di arrivare a congiungere la superficie al profondo, il visibile al non visibile, trasformando l’introversione narcisistica nella possibilità di comprendere le ragioni dell’esistenza, al di là dall’effimera costruzione del quotidiano.
Ogni corpo è il proprio corpo, uguale eppure sempre diverso, ogni volto è il proprio volto, maschera che nasconde, non per ingannare ma per suggerire di guardare oltre e cogliere il proprio essere del e nel mondo. L’identità diventa irrimediabilmente alterità. Il sé e l’altro da sé, fuggevoli eppure sempre presenti l’uno all’altro, si ricorrono in un’ossessiva ricerca di impossibile verità. L’io e il suo doppio si equivalgono, in un gioco sottile tra familiarità ed estraneità, a significare l’urgenza di un continuo sconfinamento tra un io fittizio e un io reale.
Il termine Doppelgänger scelto come titolo per questa esposizione è preso in prestito dal tedesco. Nella letteratura e nelle antiche leggende indica una copia spettrale o anche reale (una sorta di sosia) di una persona ed è presenza che non può essere cancellata, che non può sparire né morire. È intraducibile alla lettera, composto di doppel, che significa “doppio”, e gänger che significa “che va”, “che passa”.
Proprio sull’idea dell’andare, di un’erranza che può condurre a svelare l’estrema caducità dell’esistenza ma soltanto alla coscienza della sua articolata ambiguità, sono costruiti il video e le immagini fotografiche, intese come doppio e come frammento, che rafforzano la proiezione facendola rimbalzare dallo schermo alle pareti: un attraversare per arrivare e nello stesso tempo per conoscere se stesso e attraverso sé l’altro, inteso come un sé variamente oggettivato o interiorizzato. Tutto ruota intorno alla riflessione su uno stadio identitario, in cui elemento caratterizzante e al tempo stesso problematicamente complesso è la duttilità dell'io, fluido tanto da non poter essere definito. L’intento è suggerire un’unità di identità che è continuamente interdetta e negata, perché non può mai dirsi completamente. La certezza dell'essere e dell'esserci diviene la forma di un’immagine che è costantemente metamorfica e non trova forma definitiva in cui concretarsi.