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07/01/2003 al 24/01/2003 ANTONIO MENENTI : Sedimentazioni
A cura di: Loredana Rea
Materia e memoria sono i poli entro cui si muove fin dai primi anni ’90 la ricerca di Antonio Menenti, che in questi lavori recenti utilizzando carte, cartoni, sabbie, malte e colori ha realizzato una serie di bassorilievi – per lo più di grandi dimensioni – in cui il rigore della sottesa impalcatura geometrica si stempera nella tattilità di una pittura fatta di fini granelli e ruvidi corrugamenti, di imprevisti spessori, improvvise escrescenze e inaspettate depressioni. Materia e memoria sono due poli apparentemente opposti, eppure dialetticamente correlati, al punto che l’uno trova nella presenza dell’altro la ragione del proprio essere. La materia, infatti, è intesa da Menenti come substrato magmatico in cui le immagini lentamente si stratificano fino a diventare irriconoscibili lacerti di un’esistenza vissuta nella sua ineffabile precarietà. La memoria, invece, è lo strumento attraverso cui l’artista sublima la prosaicità del quotidiano, attraverso cui trattiene durevolmente ogni segno dei suoi accadimenti, attraverso cui cerca di afferrare l’infinità dell’essere superando la finitudine della singola esistenza. La memoria è coscienza dell’accadere, del farsi delle cose, del loro continuo divenire, mentre la materia è il luogo in cui esse si sedimentano per prendere forma. La memoria è la possibilità di oltrepassare la mutevole compiutezza dell’apparenza e raggiungere l’incessante diversità dell’infinito, ma soprattutto di esprimere l’insanabile dicotomia tra il qui e l’oltre, tra la presenza e l’assenza, tra il fenomeno e il noumeno. La materia è una crescita incessante, un continuo accumularsi e sedimentarsi, come per le stratificazioni geologiche del terreno, in cui ogni cosa trova definitiva sistemazione, lasciando significativa traccia di sé. Ma la materia, slabbrata e poi addensata nelle opache escrescenze delle terre e degli ossidi, esaltata sapientemente da impercettibili variazioni di consistenza, di spessore, di tono e di luce a creare una superficie trepidante di infinite vibrazioni, è tenuta sotto registro da una calibrata ricerca formale, che da sempre caratterizza in maniera peculiare il linguaggio di Antonio Menenti e la sua fertile oscillazione tra pittura e scultura. In questi lavori recenti, l’arriccio scabro, supporto vischioso su cui si imprimono i segni dell’inarrestabile divenire della realtà, lascia emergere addensamenti cromatici e frammenti di materie, ad attribuire all’immagine pittorica la consistenza e il peso della cosa reale. Frammenti e addensamenti che l’artista lascia decantare, e poi sedimentare, tra le maglie di un’architettura complessa eppure minimale, che si misura continuamente con i propri limiti, a suggerire che le coordinate del suo fisico sviluppo sono strettamente legate al superamento dell’idea di una dimensione continua e finita. La pittura, che Menenti non ha mai abbandonato, anche quando si è dedicato a fare scultura, rappresenta, invece, la possibilità di superare l’impalcatura geometrica dello spazio stesso, poiché è il campo in cui deflagrano le energie, in cui le forze differenti si scontrano e ricompongono. L’opera diviene, allora, superficie diversamente stratificata, sulla cui grana minuta, sui cui dislivelli, sui cui solchi sottili la luce indugia e si insinua con difficoltà, parete più volte intonacata su cui le tracce della vita emergono tra le inevitabili cancellazioni, muro che racconta la storia attraverso il dilavarsi dei colori e l’aprirsi delle crepe. In essa la materia e la memoria, inglobando nella loro intrinseca vischiosità il tempo della quotidianità e il suo inarrestabile fluire, si sedimentano a creare un orizzonte che sbarra lo sguardo impedendogli di andare oltre, impedendogli di sprofondare nell’indistinzione assoluta.
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