RICCARDO MONACHESI: Liquaere formam
A cura di: Testo di Ivana D'Agostino
Il progetto espositivo da cui parte la mostra di Riccardo Monachesi Liquaere formam, in nuce già nella sua mente e in parte realizzato nel 1998, si prefigura come idea base sulla quale si è costruito questo evento, reso oggi più complesso all’interno di un più articolato percorso audiovisivo e interattivo. L’organizzazione dello spazio della galleria viene visto come la compresenza di luoghi deputati diversi, all’interno di ognuno dei quali si sviluppa una determinata azione che consente una lettura contemporanea – il qui e ora – di eventi colti nel loro divenire temporale. Una specie di grande affresco medievale che non rispetta l’unità di tempo, di luogo e di azione, ricontestualizzato nel presente dall’interazione performativa del pubblico e dell’artista all’evento, la cui azione nel suo divenire, viene preconizzata dalle immagini filmate in precedenza dell’azione stessa, proiettate in video in galleria a ciclo continuo. La mostra prevede la celebrazione delle opere attraverso la loro esibizione secondo gli schemi consueti propri degli eventi espositivi. Le forme plastiche, disposte a parete e al centro dello spazio si qualificano come un archivio riconoscibile delle sculture di Monachesi: Coppe, Scudi, Vasi, Elementi plastici a parete. Ne emerge la controllata qualità del fare di questo artista, la sua capacità di ricondurre l’abilità manuale del dare forma seguendo le tecniche derivate dalla tradizione ad oggetti plastici, la cui resa si dichiara imprescindibilmente scultorea. Monachesi calibra anche i colori in un gioco di riduzione più che di esubero secondo modelli in lui ormai consolidati, che nel fare antico, peraltro quanto mai proprio come alla terracotta, individuano la conoscenza degli archetipi e di un prima, da lui costantemente trasformati in un personale percorso di comunicazione.
Quella che in un primo momento, e dopo questa premessa, potrebbe sembrare la realizzazione a tutti gli effetti di un evento espositivo normativo, in realtà è messa ampiamente in forse dalla distruzione in presa diretta delle sculture, attraverso un’azione performativa che coinvolge l’artista e il pubblico stesso, compartecipi dello scioglimento delle opere in due grandi teche di cristallo piene d’acqua. Come a dire che l’auraticità e il decoro che solitamente rivestono l’opera di un’intangibilità sacrale – ancor più sentita solitamente quando si tratti di oggetti artistici preziosi realizzati seguendo antiche pratiche del fare – subiscono un processo d’aggiornamento che prevede la distruzione dell’opera, ricondotta al suo stato primigenio di fango. L’artista e il pubblico, immemori del culto dell’opera d’arte, celebrandone la rinascita attraverso la morte, sciolgono la scultura mettendo in circolo tutte le emozioni che un’azione di questo genere presumibilmente comporta. Ovvero un passaggio graduale dal timore e incertezza che possono accompagnare la consapevolezza di essere artefici di un evento leggibile come una profanazione, alla espressione gioiosa e liberatoria di un gioco collettivo, una specie di rito iniziatico che scorpora l’oggetto dalla sua artisticità mettendo in atto una serie di pulsioni capaci di stabilire nuove e più spontanee relazioni interattive tra il pubblico, l’artista e le opere. Si tratta evidentemente di superare una soglia, uno sbarramento mentale creato da modelli di comportamento ampiamente consolidati nel tempo, attraverso un azzardo sollecitato dall’artista stesso. Il paradosso liberatorio messo in scena attraverso l’azione performativa in galleria, teso a relazionare il pubblico con l’opera d’arte su di un piano che non sia di esclusiva contemplazione e che ne preveda la costante rinascita all’interno di un perenne percorso ciclico rigenerativo, nel suo divenire, è accompagnato, e preceduto, dalla proiezione video a ciclo continuo di quelle stesse scene. L’azione che si svolge in galleria diventa quindi ineluttabile, prevista e già vissuta, accompagnando e precedendo movimenti e azioni, che tuttavia proprio perché giocati su tensioni e relazioni irripetibili, stabilite di volta in volta tra pubblico, artista ed opere, riescono a scorporare margini d’imprevedibilità tali da spiazzare in parte l’intenzionale perfetta sovrapposizione tra l’immagine virtuale e il qui e ora, irriducibili nel volersi ritagliare porzioni di spazio gestite dal caso.