Antonio Picardi "Leaves"
A cura di: Massimo Bignardi
La palese attenzione alla struttura o, meglio, al telaio architettonico della forma-oggetto è la cifra che connota l’attività creativa svolta in questi ultimi anni da Antonio Picardi. Dagli appunti e dai materiali fotografici che documentano tale lavoro affiora una linea, un progetto di manipolazione dell’immaginario ben chiaro, assunto come fil rouge che, a distanza di tempo vale a dire dagli anni Ottanta quando ho conosciuto l’artista, si identifica come desiderio e necessità di rapportare il valore della forma (in quegli anni era il valore della forma pittorica) con quello del segno. Un rapporto che oggi si stringe intorno a due elementi portanti, in pratica la struttura e l’architettura che sorregge il prisma immaginifico del light box, del libro-oggetto (comunemente indicato come libro d’artista) ma anche la linea che, flessuoso disegno, tratteggia il collo o i polsi, divenendo segno e materia della voluta, dell’ellisse, dell’iperbole, della spirale, insomma del sensuale universo che le conchiglie nascondono. Picardi costruisce con lucidità un percorso che conduce il nostro sguardo entro la forma, senza, però, rinunziare sia alla seduzione che l’immagine attiva, sia al suo darsi come materia, ossia corpo scultoreo. Leaves, un dittico realizzato nel 2003, composto da due box luminosi, risponde, per l’appunto, alla prima necessità: l’immagine fotografica, densamente pittorica, è offerta in positivo e in negativo, vale a dire e come eloquenza dello sguardo, della sua capacità di iscrivere in “figure” parti del mondo e come sintesi di un processo di astrazione. Le immagini sono contenute in un box, un prisma a base rettangolare disposto ad accogliere la prospettiva, l’incidenza dei piani, quindi, dei toni e, al tempo stesso, ad originare una modulazione plastica, cioè ad offrire lo spessore, l’aggetto. Anche nella scelta del soggetto raffigurato, foglie di piante acquatiche, di ninfee, oppure la struttura di una foglia larga, letta in filigrana, Picardi mantiene un suo rigore compositivo, lo stesso che, nel libro-oggetto, riscopriamo nel suo deciso insistere sulla diversità della carta, una sorta di vero e proprio abbecedario di risposte date all’inchiostro, al segno, alla rifrazione della luce sulla superficie lucida delle stampe digitali. È la stessa che conduce l’artista a lavorare sulla microscultura, sui gioielli, immaginati sempre come segni e come strutture, ossia quali tracce adagiate sul corpo, sull’emotiva immagine della seduzione o, meglio ancora, evidenze plastiche che conservano il mistero del mondo, dell’eterno dialogo fra forma concava e convessa ma anche, fra il rigore della composizione e la possibilità di accogliere imperfezioni proprie dei materiali. Alla base v’è l’ordito di un intenso dialogo con la natura che, in questi gioielli - rispetto soprattutto al light box -, si fa manifesto, esplicito. La natura è intesa come anima e forma, corpo ed immagine della nostra conoscenza, del nostro essere. Sono archetipi assunti quali gioielli, forme di un remoto io che l’artista combina con la geometria di linee affidate all’astratta luminosità dell’argento, di curve, di reticoli saldati, di punti segnati dal rosso del corallo che chiudono delle spezzate, ma anche di piani che accolgono i riflessi della madreperla, tessuti a mo’ di mosaici, di incastri, di scritture. In fondo, suggerisce l’artista, sono disegni da indossare.Categorie
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