Rita Mele. Urgenza di parole,
A cura di: A cura di Loredana Rea
URGENZA DI PAROLE
di Loredana Rea
Il linguaggio pittorico che Rita Mele ha costruito in questi ultimi anni è complesso nella ricerca di continue commistioni tra soluzioni formali differenti sia nei presupposti sia negli esiti, perché alimentato da una curiosità vorace che la spinge a esplorare ogni volta altri territori di sperimentazione, creando stratificazioni, sovrapposizioni, mescolanze, contaminazioni inaspettate tra persistenze figurative e istanze di matrice post-informale. Un linguaggio che trova le motivazioni di sé in una materia esuberante, a tratti densa e a tratti rarefatta, ma sempre calda, rigogliosa, germinante, capace di creare un intrigante equilibrio tra la sensualità istintiva del colore e l’urgenza di un racconto intimo, suggerito attraverso immagini elementari eppure evocative, in cui naufraga ogni pretesa di razionalità.
A emergere con inaspettato vigore, infatti, ben oltre l’ammaliante voluttà della pasta cromatica, tenuta sotto registro da una gestualità contenuta ma suadente, e dei segni che da essa affiorano come da uno scavo archeologico, è la necessità di restituire inalterata la profondità di un sentire in cui il recupero della memoria rappresenta il filo sottile ma tenace, che lega gli elementi essenziali del suo alfabeto visivo gli uni agli altri inscindibilmente. Memoria di luoghi, su cui si radicano le tracce del vissuto quotidiano, intrecciandosi alle fugacità di altre esistenze, alla continuità di antiche tradizioni e al tessuto di una gestualità che affonda in un’abitudine di cui spesso non si conoscono le origini. Solo attraverso la pittura è data la possibilità di recuperarle all’oblio di un tempo che fagocita tutto, per lasciare emergere la qualità delle emozioni che sostanzia ogni accadimento e riportarla a una dimensione interiore, in cui la percezione ineludibile della transitorietà rende tangibile la continuità tra passato, presente e futuro.
Per questa esposizione Mele propone al pubblico lavori recenti, tutti di formato quadrato, di grandi e piccole dimensioni, dominati dalla necessità di lasciare che lo sguardo penetri all’interno della materia pittorica, intesa come sostanza originaria, matrice di tutto ciò che è in fieri, luogo in cui il segno dialoga con la fisicità del colore, che si coagula e poi si dirada, come a seguire le esigenze di un suo fisiologico sviluppo, in un infittirsi di pennellate di andamento e lunghezza differenti, per formare forme in sé significanti, figure in potenza cariche di tempo e di tracce del suo scorrere inesorabile. Ma accanto alle immagini minimali prendono corpo le parole, incise nella densità cromatica o scritte in punta di pennello, a cadenzare il bisogno di trattenere i pensieri rubati allo scorrere della quotidianità e, soprattutto, di far pulsare di altri significati il suono catturato e rimasto sospeso nell’aria. Lo sguardo allora per necessità diventa mobile, avanzando rapidamente sulla superficie delle tele, accendendosi e poi spegnendosi repentinamente, per poi riprendersi e nuovamente interrompersi seguendo il ritmo di un percorso che incessantemente inverte la sua direzione, voltandosi indietro e tornando infine a rivolgersi in avanti, per scoprire qualcosa che era sfuggito, in un crescendo di intensità che può bruscamente cessare. È così che la materia ha il sopravvento sul colore nel rivelare la presenza di un cammino disseminato di piccoli accidenti e grandi incanti, in cui il suono delle parole si pone inevitabilmente come materializzazione dell’urgenza di rendere visibile ciò che non sempre è visibile e, soprattutto, di riuscire a dire ciò che non è facile dire.