20/11/2012  al 07/12/2012

Sauro Rollandi. L’omino di Sauro

A cura di: Giorgio Bonomi

Sauro Rollandi.  L’omino di Sauro

La tragica serenità dell’omino di Sauro

di Giorgio Bonomi

 

Sauro Rollandi, dopo un periodo di “assenza”[1] dall’arte come pratica estetica, ma non dall’arte come pratica di vita, è ritornato da alcuni anni nei territori della creazione artistica, con grande coraggio, dati le difficoltà e mutamenti  attuali del sistema. E ritorna proprio ripartendo da quello che – al di qua e al di là di lavori che sono anch’essi interessanti ma meno “radicati” nei fondamenti del suo sentire e del suo esprimersi – è il suo segno inconfondibile: l’omino, definito di Sauro.
Questo segno elementare, vero e proprio ideogramma, rappresenta  un uomo o, meglio, l’uomo, anche se stilizzato e raffigurato in tutta la sua umile – nel senso forte, cristiano, del termine – riservatezza ma, allo stesso tempo, nella sua virile determinazione e caparbietà.
L’omino così, solitario o concatenato ai suoi simili, si avventura in funambolismi, in cortei, in solitudini tra la folla, in ironici equilibrismi, finanche in felliniani abbandoni tra seni di una,  metafisica ma sensuale, Grande Madre.
Naturalmente l’omino è Sauro Rollandi stesso, ma la sua opera travalica la soggettività – e così deve essere, altrimenti avremmo il diario, più o meno affascinante, di un individuo che, proprio perché resta nell’effimero del soggetto, poco potrebbe interessarci – cosicché l’omino è l’uomo. È quello che rappresenta l’umanità, tutta, di ieri, di oggi e di domani (almeno finché i parametri per definire l’essere vivente restino gli stessi che lo caratterizzano, dall’homo sapiens ad oggi).
Si badi – e non stiamo per fare un gioco intellettualistico di parole – l’omino, come si è detto,  è anche Sauro proprio perché prima è l’uomo nella sua generalità di specie nella quale, appunto, l’artista non può non essere inserito; quindi non si tratta di una forma di presuntuoso narcisismo, consistente nell’ergersi a modello universale, ma precisamente del suo contrario, cioè il riconoscere la propria parzialità di quella totalità espressa nella e dalla sua arte.
Guardiamo ora con attenzione le “storie” dell’omino: ora è gaio e felice, ora solo e triste, talvolta prova a stabilire un dialogo (un amore?) con un suo simile ma una linea tracciata all’infinito ne impedisce, per sempre, l’unione; come Lucio Fontana che, dopo il primo taglio, lo moltiplicò sulla tela, Rollandi moltiplica l’omino. Allora gli omini, anche se sono tutti uguali, sono nel contempo tutti diversi,  non tanto per la “regola” di Gilles Deleuze secondo il quale la “ripetizione è differente”, quanto perché le individualizzazioni personali, ancorché importanti e fondamentali per l’identità transeunte della propria persona, in realtà non servono poi così tanto a diversificare tutti gli uomini che, come tali, sono, o dovrebbero essere, uguali. Uguaglianza che si presenta sia nel suo volto positivo di appartenenza alla stessa specie e quindi portatrice di rispetto reciproco, sia in quello negativo dell’appiattimento dell’omologazione, tipico dei nostri tempi di globalizzazione.
A volte l’omino, come capita anche a tutti noi, si trova “solo tra la folla”, schiacciato da una serie di edifici che quasi impediscono la vista del cielo, come avviene nella caotica urbanistica delle metropoli ma anche, seppur con conseguenze emozionali assai diverse in quei piccoli paesi liguri[2], con la differenza che nel primo caso si ha un affollamento anonimo e asociale mentre nel secondo c’è conoscenza, familiarità, solidarietà, storia.
Di fronte a certe composizioni di Rollandi ci viene in mente lo stupore che avrà provato Piet Mondrian, esule negli USA, di fronte al brulichio di luci, di edifici, di automobili a New York, che ispirò i suoi ultimi straordinari quadri, i Boogie-Woogie.
Ed ancora: l’omino vive situazioni “ossessive”, infatti non riesce a liberarsi, irretito in una serie di linee/impedimenti che lo trattengono come un ragno in una ragnatela, i fili della quale, fuori della metafora, sono quelli della vita di ognuno, fili (barriere) belli e brutti, soggettivi ed oggettivi.
Appare evidente, comunque, che Rollandi nella sua poetica è sempre “severo”, a volte tragico altre sereno, ora ironico ora lirico, mai però con l’urlo sguaiato, anzi si presenta in ogni caso riflessivo, mai “grazioso” o condiscendente all’abbellimento, mai “retorico” e sempre “persuasivo”, per usare le categorie di Carlo Michelstaedter[3].
Passiamo ora a considerare gli aspetti formali, essenziali nell’arte quanto i contenuti, dell’opera di Rollandi. Anche se l’artista tiene a sottolineare che il suo interesse è tutto concentrato sul significato di quello che vuole esprimere, noi non possiamo esimerci – altrimenti non faremmo opera di critica – dal sottolineare il valore dei suoi significanti, cioè della realizzazione “tecnica” delle opere – altrimenti, senza questo “valore”, il discorso di Rollandi resterebbe sociologia, politica, filosofia, narrativa ma non arte “visiva”.
Se l’omino è un essere “semplice”[4], anche il “luogo” del suo operare è tale, infatti Rollandi sulla tela stende una rete sottile di alluminio che, con un efficace gioco di luci, rende grigio – ma si tratta di un grigio chiaro, gradevole, non di un grigio uggioso – lo sfondo e gli dà corpo, poi sulla rete – ma concettualmente potremmo dire “senza rete” perché la vita dell’omino ha lo stesso pericolo di quella del funambolo – disegna, con il silicone, i suoi personaggi, i protagonisti delle storie, sue (di Rollandi), loro (degli omini che, in questo modo, godono di vita autonoma, grazie all’arte), ma anche nostre (di chi guarda, riflette e comprende queste opere).
Recentemente l’artista usa anche il colore, sia per gli omini o altre immagini che per gli sfondi: gli esiti non cambiano, i colori possono offrire sensazioni in parte diverse, come del resto avviene per ogni opera rispetto alle altre, ma il messaggio, la sensazione, l’emozione che l’artista ci suggerisce[5] non mutano, restano i medesimi.
Ci è capitato di imbatterci in un pensiero del “padre” della storia dell’arte, Giorgio Vasari, che più appropriato, rispetto al lavoro di Rollandi, non potevamo trovare e che vogliamo qui riportare integralmente: “Molti sono creati dalla natura piccoli di persona e fattezze, che hanno l’animo pieno di tanta grandezza ed il cuore di sì smisurata terribilità, che se non cominciano cose difficili e quasi impossibili, e quelle non rendono finite con meraviglia di chi le vede, mai non danno requie alla vita loro; e tante cose, quante l’occasione mette nelle mani di queste, per vili e basse che elle siano, le fanno divenire in pregio e altezza.”[6]

 


[1] Il curriculum di Rollandi, tra l’inizio del suo operare e quello del periodo sabbatico, cioè tra il 1970 e i primi anni ’90, è ben scandito da tappe rilevanti, per esiti operativi e per prestigio di esposizioni (ad esempio nelle Gallerie Cesarea, Ghiglione, Rotta di Genova), oltre che per l’attenzione di critici importanti quali Germano Beringheli, Francesco Vincitorio, Viana Conti ed altri.

[2] Il Nostro vive nelle Cinque Terre, luogo di grande e inquietante fascino, non già per  i motivi dei turisti del Sentiero dell’Amore, bensì per quell’impervietà delle rocce, per la durezza della terra e del mare, per la severità dei suoi abitanti, tenaci pescatori o contadini che, dal loro duro lavoro, sanno trarre delicati ed eccezionali prodotti.

[3] Di C. Michelstaedter è il noto La persuasione e la rettorica, prima ed., Formiggini, Genova 1913; ed. recente, Adelphi, Milano 1995.

[4] Ci piace ricordare, a proposito di questo concetto presente nella poetica di Rollandi, quello che disse, da un lato, Francesco De Sanctis: “La semplicità è compagna della verità come la modestia è del sapere”, F. De Sanctis, Beatrice Cenci. Storia del secolo XVI, di F. D. Guerrazzi, 1855, ora in F. De Sanctis, Saggi critici, vol. I, ed. Laterza, Bari 1969, p.48; e: “La semplicità è la forma della vera grandezza”, F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, vol. II,1870-71, citato dall’ed. La Universale “Barion”, Milano 1941, p. 277. Da un altro lato, però, abbiamo anche la consueta, aspra, ironia di Hugo von Hofmannsthal che riporta una frase di Franz Grillparzer: “L’uomo comprende tutto, salvo ciò che è perfettamente semplice”, e anche: “I caratteri semplici, non i complessi, sono difficili a capire”, H. von Hofmannsthal, Il libro degli amici, 1922, ed. ital. Adelphi, Milano 1980, pp. 53 e 57.

[5] Usiamo questo termine e non quello classico della critica, “comunica”, proprio perché Rollandi, come i suoi personaggi, non presume di indicarci asseverativamente alcunché, ma solo vuole “suggerire” con la consapevolezza di poter, senza falsi pudori, accennare possibili temi e sentimenti, per la riflessione e per le emozioni e, perché no?, per un godimento estetico.

[6] G. Vasari, Filippo Brunelleschi, in Le vite de’ più eccellenti pittori scultori ed archi tettori scritte da Giorgio Vasari pittore aretino con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, Tomo II, G. C. Sansoni Editore, 1906, ristampa anastatica, ivi 1981, p. 327.

 

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