STEFANO SODDU: Prigioni e celle dell'anima
A cura di: Lorella Giudici
Anima temi le magnificenze. Le tue ambizioni dovrai vincerle se con circospezione e prudenza non le puoi secondare. Più avanti vai più devi farti indagatrice e attenta. (C. Kavafis, Cinquantacinque poesie, a cura di M. Dalmati e N. Risi, Einaudi, Torino 1982) Grandi griglie arrugginite, pesanti lastre di metallo, fragili scale di legno, massicci e ingombranti opercoli, razionali e solide architetture di ferro… sono solo alcuni degli elementi che compongono gli ultimi lavori di Stefano Soddu, ma sono quelli più inquietanti, misteriosi, a tratti persino minacciosi. Come antichi strumenti di tortura o come preziosi cimeli di trascorse battaglie, gli oggetti ostentano la loro forza, impongono la loro intimidatoria presenza, interrogano le coscienze di chi per un istante si sofferma, esita, si perde nella magia dei materiali: dalle brune ossidazioni dei ferri alle irregolari abrasioni delle superfici, dai caldi e scabri avvallamenti delle lastre alle scure voragini delle rigide sacche di metallo, fino alle variopinte polveri, ammonticchiate come spezie su scure e rettilinee piattaforme. La materia attrae, racconta, seduce. La bellezza di quelle scorze accarezzate dal tempo, tornite dalla vita, modellate e piegate dai giorni e dal dolore commuove e cattura. Eppure, il significato di queste opere va al di là della mera bellezza tattile (pur vera e tangibile), si nasconde nel loro valore simbolico, iconografico, emozionale. Soddu le ha chiamate Prigioni dell’anima, le ha viste come celle in cui lo spirito è rimasto impigliato, costretto, soffocato. Le ha pensate come macigni sotto i quali la libertà interiore soccombe, si dispera in un’asfissia protratta e ineluttabile, prigioniero di un lento e estenuante stillicidio. Ciononostante, non tutto è perduto. Per quanto la situazione possa apparire disperata, non è ancora allo stremo. Arrendersi e lasciare che quel lieve margine di speranza, quel sottile filo che tesse e sorregge l’esistenza si spezzi sarebbe un errore. Occorre lottare, cercare tra quelle pieghe un varco, lacerare anche un microscopico lembo di quel coriaceo metallo, aprire una piccola feritoia nello spessore di quelle lastre. Stefano Soddu lo ha fatto. Ha lottato perché tra quelle increspature, su quei corpi arrugginiti rimanesse scritta la storia di tanti (oltre che la sua), perché su quelle forme ci fosse impresso il segno di una quotidianità che sconvolge e annienta, provoca e sottrae, stupisce e affligge; ma soprattutto perché, dopo tanto affanno, da quelle lamiere emergesse (o si liberasse), in tutta la sua indomabile energia, l’anima dell’arte, l’unica veramente dura a morire. Ne sanno qualcosa le massicce lastre di Prigione 1 e Prigione 2, le cui bitorzolute superfici portano ancora i segni di una feroce lotta intestina. Con la forza della disperazione, mosso da quell’atavico istinto di sopravvivenza, lo spirito recluso si è ripetutamente scagliato contro quel muro corazzato, ha cercato di forzare quella barriera che lo separava dal mondo, dalla luce, dall’aria, dalla vita. Una lotta impari, spietata, all’ultimo respiro, ma non inutile. C’è sempre, nel lavoro di Soddu, una vena di speranza. Anche quando tutto sembra assumere toni duri, disperati, impossibili, un appiglio a cui aggrapparsi lo si trova. E non è semplice ottimismo ma senso di giustizia, possibilità di riscatto, fede. Allora, alla luce di questa riflessione, quelle spranghe che dilatano, tendono e deformano le morse di metallo (Fonte 1 e Fonte 2) non sono più strumenti di tortura bensì congegni di una via di fuga; svanisce persino la preoccupazione per quelle pallottole di stoffa e colla che ostruiscono alcuni fori della griglia (Fughe) che, a ben vedere, non sono poi così impossibili da rimuovere. E poi c’è la Scala che, per quanto precaria, instabile e insicura, è pur sempre una scala, una via possibile, un collegamento fisico e ideale tra cielo e terra, un sentiero dell’anima. Salire o scendere? Il dilemma è pleonastico: entrambe le direzioni portano allo spirito. La lapidaria sagoma grigia alla sua base non fa che confermarlo. La morte è una rigenerazione, anzi per le filosofie orientali e per la maggior parte delle religioni occidentali, la morte è l’unico vero momento di liberazione, è l’attimo in cui finalmente lo spirito si svincola dall’ingombro del corpo e vaga, libero di vibrare all’unisono con le forze segrete del creato. “Tu sei polvere e in polvere ritornerai” recitano le sacre scritture. Più che una minaccia una trasformazione necessaria dall’esito molto simile a quell’impalpabile pulviscolo raccolto da Soddu in cinque neri poliedri (elementari intersezioni di piani), sui cui frontespizi è ritagliata una grande lettera in stampatello. Una ferita, un condotto da cui deborda un poco di quel sottile pigmento che satura e accende con i suoi toni l’incavo geometrico che lo custodisce. Giallo, rosso, verde, nero, bianco: cinque colori per cinque scatole, cinque contenitori per cinque semplici lettere: A-N-I-M-E. E la meta è raggiunta.Categorie
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