Vittorio Vanacore “Nero alla deriva”
A cura di: Michelangelo Giovinale.
Attraverso la pittura, lo sguardo si allunga fin dentro le viscere dell’umanità.Un’indagine nel tessuto sociale del nostro tempo - sempre più clandestino - dove processi di integrazione e di multiculturalità, di dignità umana, si consumano nel respingimento, nell’esclusione dell’altro. In un astratto “noi”
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NERO DERIVA
di Michelangelo Giovinale
Il nero è quel lato oscuro della personalità di ciascuno di noi, che, spesso, rinneghiamo. È la notte della coscienza, di caverne, di ombre e di mostri. Coprente, denso, catramoso. Sospinto fino ai bordi.
Il nero è una esperienza limite, per un artista una coltre insuperabile, un confronto durissimo. Un corpo a corpo con la pittura, fra il desiderio della vita e l’avanzare della morte.
Il conflitto del colore, che caratterizza gran parte dell’opera di Vittorio Vanacore, è il risultato dell’analisi del mondo che lo circonda, di uno sguardo che si allunga in profondità nei drammi della contemporaneità.
Una metafora moderna, che, nella negazione del colore confinato nel fondo della tela, manifesta l’impossibilità di riconoscere all’altro la propria peculiarità.
Un’indagine che, attraverso la pittura, si cala nel tessuto sociale del nostro tempo -sempre più clandestino-, dove processi di integrazione e di multiculturalità, di dignità umana, si consumano nel respingimento e nell’esclusione dell’altro.
Il viaggio, fra il buio e la luce, fra il colore e il suo rovescio, resta una traccia costante nelle ultime ricerche dell’artista, il cui registro tonale, tirato agli estremi, restituisce ancora più drammaticamente l’incontro con il reale.
Da un’esplorazione interiore, irrequieta, a tratti convulsa, che segna profondamente l’esperienza pittorica del nero, Vanacore sposta il suo orizzonte dall’uomo alla natura, nel nuovo ciclo, inedito, dei paesaggi. Interrogarsi sull’essere umano lo spinge a porsi domande sul mondo.
È l’antico mondo del Mediterraneo che scuote ancora la sua tensione creativa, che Vanacore sente compromesso nella la sua originaria unità perduta -unità di essere e divenire, del tempo e della storia-, irrimediabilmente compromesso nel generico equilibrio universale del mondo moderno.
Storie reali, di persone distanti per patrimoni di conoscenza, allo stremo delle forze, vengono respinte alla deriva, solcando rotte che diventano odissee, per poi doversi accontentare di una vita al margine, condannate all’invisibilità sociale.
I fenomeni migratori, di sofferenza e di morte, di partenze e mancati approdi, segnano, agli occhi dell’artista, il contenuto dei luoghi e il loro essere paesaggio, fissandone l’immagine nella sua drammatica attualità.
Il ciclo dei neri, la cui superficie pittorica è ustionata dalla forza violenta del sole cocente d’agosto -al termine di una lunga gestazione interiore -, sconfina nel bianco calce di paesaggi fantasmi e silenti. Nero e bianco -i cicli che segnano questa ultima stagione pittorica- sono espressioni cromatiche agli antipodi, senza gradazioni di identità, contrasti perpetui della vita.
La poetica informale della sua pittura - in maniera paradossale - restituisce drammaticamente la forma della realtà, nella sua manifestazione più nuda e cruda, come le sue fragilissime barchette di carta, adagiate, nelle sue opere, in precario equilibrio su fili tesi, da un capo all’altro dei dipinti.
Perdere l’uomo equivale a perdere un paesaggio. È l’elaborazione del lutto, la perdita dell’oggetto, della cosa amata. Direbbe Freud, è la perdita di tutto un mondo che ruota attorno alla cosa amata. Di sogni, di miti e di méte.
È un gesto estremo il cellofan che avvolge una delle ultime opere dedicate al paesaggio mediterraneo. Un rito tombale, come un velo di pietra sul volto imbiancato dell’umanità. È il bianco ceruleo della morte, il nero della vita.
Un cielo sottovuoto sopra un mare privo di riflessi, di resti e di ceneri.
Ancora un filo teso ed una barchetta in equilibro “facendo in modo che la morte non sia l’ultima parola sulla vita”.